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Roma, 18 ottobre 1586
Med. 5092, n° 155 (c. 410rv), firma autografa
//c. 410r//
Sopra mie parole non può havere parlato il papa quel che disse di San Marcello [1], perché non vi ho pur pensato, et se bene non l’harei se non caro, et di questo sono sì resoluto, che dicendomi hora Vostra Altezza che n’anco può fondarsi su le sue, conviene che resti appoggiata la novella sul dire, et menare de nostri, che pur troppo aperto scorge la corte, et siano che si voglino. Della promotione può molto bene essere quel che Vostra Altezza discorre, et (come ella dice) il tempo lo scoprirà meglio. Col vescovo di Troia [2] non ho io ancora interesse ne differenza alcuna, ma considero lui come nipote del cardinale di Pisa [3], il quale sa bene Vostra Altezza ch’era implacabile nimico di casa nostra, et per offese, nelle quali non pur non potetti havere io parte alcuna sì che possino dirsi particolari mie. Scrissi a Vostra Altezza di lui come ho fatto sempre in casi simili, et per suo ragguaglio, et per sentire il parere di lei, la quale poiché non vi preme, né vuole opponersi, lasserollo correre ancora io, poiché nelle cose communi desidero sentire il parere suo, solo per confermarmi con esso, et volere quel che vuole lei perché nel resto crederò senza sua molestia cacciarmi d’attorno quel che mi sia grave, come già più d’uno lo prova. Della speranza che dava di buon successo l’indispositione di don Giovanni [4] meno allegro, et ringratio Vostra Altezza dell’avviso, poich’egli non me ne scrive. fu qua messer Curtio de Nobili, con la lettera di Vostra Altezza per la quale più che per sodisfattione ch’io havessi di lui, lo feci consigliare d’esaminarsi circa la constitutione con suoi avvocati, da quali sendo stato trovato mal provisto di ragione per constituirsi, pare ch’egli senza scoprirsi risolvesse di tornare a dietro. Pregandomi hora, ch’io lo //c. 410v// raccomandi a Vostra Altezza ho voluto, che ella sappia quanto è passato, et però glielo dico con questa credendo il resto essere superfluo con lei, che lo raccomandava a me.
Il cardinale Gesualdo [5] mi fa intendere, che supplicava Vostra Altezza per la gratia di certa condannatione per la quale Francesco Rondinelli suo servitore già circa dieci anni sta fuor di Fiorenza non havendo commodità di pagarla, et ne tratta meco con tanto affetto, che dovendo mostrarlo pari, o maggiore con lei, non potrei se non dire, che egli ami grandemente questo homo, et grandissimamente desideri di vederlo consolato da Vostra Altezza la quale sapendo quanto per la sua amorevoleza incredibile, confermata da effetti in ogni occasione egli meriti con tutti noi, et con lei particolarmente per cagione della quale suol professare di muoversi, io stimo superfluo di raccomandarli il desiderio suo, et lo fo più perché me lo richiede, che perch’io lo stimi di bisogno, se bene vorrò haverle molto obligo d’ogni sodisfattione che le piacerà darli. Pare che costui fusse condennato in sua contumacia per imputatione d’havere giocato su la fede.
Ch’è quanto m’occorre dire a Vostra Altezza et le bacio la mano.
Di Roma li xviij d’Ottobre M.D.LXXXVJ.