Il cardinale Ferdinando al granduca Francesco I, a Firenze

Printer-friendly versionPrinter-friendly version

Roma, 14 marzo 1587

Med. 5092, n° 189 (cc. 481r-482r), firma autografa

//c. 481r//
 
Mi dispiace che né la lettera mia, né il foglio mandatole con essa si fusse fatto ben intendere, poi che non haveva Vostra Altezza veduto l’utile manifesto della mia proposta, che in somma era di pigliar danari a sei per cento per recuperarne bene, i quali affittandosi a quel segno, che hora li affittano quelli, che li tengono, renderiano a ragione di dieci, talché tre et quattro per cento vengono guadagnati franchi, che in quella somma importa tanto, che a quel tempo, che si sarà potuto risquoter con l’entrate ordinarie, si calcularà circa la metà di tutta la somma, che sariano danari come trovati in terra. Aggiugnesi, che né facendo così, il Rebiba [1] rivuole il palazo  di Campo di Fiori affittato da noi mille scudi, et così in questo perdiamo 400 importando solo 600 di frutto li denari suoi, oltra che dubito, che spiri anco il termine della retrovendita, ch’è un gettare via quella casa. Cesano viene rovinato affatto dalli Sforzi, et è una compassione sentire le querele di quelli vassalli, et li danni, che ne riceve il signor Virginio [2]. Vicovaro peggio di tutti, quanto è tenuto da peggiori homini, et li terrazani in //c. 481v//  commune, et in particolare si raccomandano ogn’hora pregando che si recuperi et, come sono ricchi in commune, credo che donariano selve, et tenute per più di x mila scudi, se si vedono uditi in questo, et liberati dalla rovina loro.
Al medesimo può dirsi delli altri luoghi, et tenute, che tutti sono lavorate a frutto, et non a conservatione, et il marchese di Riano [3] disegna romper la sua, che sendo riposata, et grassa gli renderà il doppio per due anni continui, et poi la tornerà all’affitto di 3 mila scudi, et più, et possiamo rihaverle per li 32 mila. L’utile dunque che, pagato il censo de denari se ne  cavarà affittando, sarà di tre, et quattro per cento, col quale s’aiutarà d’estinguere il debito di danari che si piglino. Et non è dubio, che con lavorecci se ne caveria più, ma non volendosi entrar in questo per le ragioni, che Vostra Altezza bene dice, potremmo ristringerci al guadagno suddetto con risparmio, et conservatione de vassalli, et delli luoghi, che si desertano stando così, et parmi che sia la cosa tanto chiara, et palpabile, che non havesse bisogno d’altra prova, et che lassandosi di farla, potremmo più tosto esserne imputati, et il signor Virginio dolersi di me se lo sapesse.
//c. 482r// So che Vostra Altezza ha favorito il figliolo di Jacopo Baldovinetti herede di Jacopo di Poggio contra il quale parmi vedere quasi congiurato il publico di Lucca a ridurli in niente la giustitia, che ha tanto manifesta sopra quelle cose come li dirà più minutamente il detto suo padre, il quale io la prego di sentire et di favorirlo degl’effetti della sua protettione, poiché aiutarà un suo vassallo, et io ancora le n’harò obligo.
M’è venuto pensiero di mandare a Vostra Altezza per Pratolinoa una soma di arbori di storace non mi ricordando d’haverne mai visti in Toscana, et provandoli qua di bella vista, et di frutto ancora. La campagna di Tivoli sola ne tiene della quale il cardinale di Ferrara [4] ne portò in questa sua vigna di Roma et fanno bellissima vista, poiché crescono in albero grande, caricansi di bellissimo fiore, et odorifero, et lo serbano assai tempo, et producono storace, del quale pur mandarò saggio, con altri arbori detti di giuda di fior rosso che dura per tre mesi. Se harò incontrato nel gusto di Vostra Altezza n’harò molto piacere, et li mando col procaccio, acciò venghino tanto più presto, et patischino tanto meno di star fuor del terreno. Et con questo a Vostra Altezza bacio la mano.
Di Roma li xiiij di marzo M.D.LXXXVIJ.


4. Cfr. la lettera n° 179, nota 3.
a Minuscolo nel testo.