Nofri Camaiani al granduca Cosimo I

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Roma, 11 maggio 1570

Med. 5085, [già num. 127], cc. 253r-254v.; c. 257r-v.

Serenissimo Signore mio padrone colendissimo,

per ubidire a Vostra Altezza, secondo che m’ha comandato per lettere del secretario Concino, la saprà con pura verità che dopo la partita sua di Roma (sendomi io risegnato in Dio, et postomi nelle braccia di Sua Santità et di Vostra Altezza, ancorché la mi accennasse che Sua Beatitudine li havea mostra gran volontà verso di me, et ch’io dovessi initiarmi alla vita ecclesiastica, il che mi raffermò anche la Santità Sua) ho seguitato con la debita humiltà et fede di servire Sua Beatitudine senza far segno o minima dimostratione di ambire o di sperare maggior grado o dignità. La Sua Santità mi mostrò la medesima confidenza et amorevolezza sino alla venuta delli tedeschi, anzi sino a quel dì che gli lessi quelli avvisi di Germania. Poco di poi, crescendo i romori, m’accorsi di qualche mutatione et varietà sì nella materia della risposta a protesti, sì anco verso di me. Fu mandata fuore una voce dal cardinale Farnese, et forse per prima dal Sangalletto o da alcuni della Camera, che Sua Santità m’havea ribu[ff]ato et bravato per le cose di Vostra Altezza. Il che in vero è bugia, //c.253v.// perché se bene ha contradetto alcuna volta di quelle cose che havea approvato, non ha però mai parlato se non con la medesima piacevolezza. È ben vero che il dì dell’Ascensione, negotiando con Sua Santità, saltò in collera meco per causa d’una risegna ch’io volevo fare dell’avvocatione mia consistoriale a un valente giovane dottore parente di messer Domenico Bonsi, dicendo che non li piaceva et non la volse ammettere. Di che certo restai ammirato perché molto prima m’havea fatto gratia ch’io ne disponessi a mio modo et è offitio profano che me lo dette Julio III et si è usato ritrarne qualche ricompensa, come ne feci capace Sua Santità et non seppe replicarmi. Mi condolsi col vescovo di Bagnarea, commissario dell’Inquisitione, suo confessoro et molto mio patrone et amico, del dispiacere d’haver visto turbata Sua Santità contra di me, che in cinque anni non m’era occorso. Monsignor fece l’offitio ricordandogli con quanta rettitudine et netteza io la servissi senza havere havuto mai una querela o sospitione d’un minimo interesse, havendo //c.254r.// messomi sotto li piedi ogni sorte d’utilità. M’ha detto che Sua Santità s’aperse che certi dottori del collegio (che sono miei emuli) cioè messer Marcantonio Borghese, poco amico mio intrinsecamente et poco servitore di Vostra Altezza (il che sia detto senza vendetta, come bisognando gliene darò inditii manifesti), havevono fatto mal’offitio calunniandomi ch’io volessi far mercantia di quella avocatione; soggiunse che questo poco importava, ma che era scandalizzata et mal sodisfatta per havere io procurato et fattogli chiedere prelature grandi, avvenga che io sia rimasto vedovo di così poco tempo. È vero che in ultimo gli disse ch’io non mi attristassi et stessi di buona voglia. Se non ci fusse radice più alta et recondita, conoscendo la natura del papa molto facile all’alteratione, non saria da tenerne conto, ma io credo senza ingannarmi che nell’occasione di questi romori habbiano preso animo di quelli cardinali et ambasciatori che la può immaginarsi di caricarmi et darmi la colpa di questi travagli et che sotto spetie di carità habbino //c.254v./ posto in consideratione et in scrupolo di conscienza il tirarmi innanzi. Et potria essere (ancorché Sua Santità non habbia mostro di saperne altro) che di casa Farnese et del cardinale Pisani decano siaa fatto intendere a Sua Beatitudine che mentre io studiavo a Padova intervenissi a uno homicidio. Ma la verità è, come si può ricordar Vostra Altezza, che essendo io d’anni 19 in 20 trovandomi una sera a caso con tre o quattro scolari dell’Umbria et di Toscana, inimici d’altrettanti franzesi, coi quali io non havevo briga o conoscenza, fummo assaliti et senza colpa o peccato fui ferito, defendendomi per non esser ammazzato; et dall’altra parte venne ferito uno che si morse, et io solo fui per iustitia assoluto, come innocentissimo et senza alcuna colpa et in foro penitentie non me n’è stato fatto caso di irregularità nel prendere la prima tonsura. Altra eccettione non so che si possa dar alla mia vita et alle mie attioni di 20 anni in questa corte, perché per gratia di Dio son stato da dottore //c.257r.// et gentilhomo honorato, che ha preposto l’honore all’utile attendendo al servitio dei padroni più che al suo proprio. Possono, come ho detto, i poco amorevoli di Vostra Altezza, per battere un servitore et creato suo, haver con varii modi intepidita o distorta la buona inclinatione di Sua Santità verso la persona mia in questa congiuntura di promotione. Quel che mi preme come cosa falsissima che mi habbino dato carico ch’io habbi fatto opera che Vostra Altezza o altri habbino parlato a Sua Santità di me, che sa Dio et lei medesima se apersi mai bocca de fatti miei mentre fui qua, se non quanto la mi disse haver parlato di sua spontanea volontà. Non posso negare di non esser afflitto di tanta malignità et invidia che iniquamente et calunniosamente va machinando contra di me suo vero servitore per farmi restare vilipeso et conculcato. Io son peccatore et confesso non meritare honori grandi nella chiesa di Dio. So ancor certo di non havere obiettione //c.257v.// che mi renda più indegno et incapace. Però mi rimetto nelle braccia della bontà et autorità sua, ch’io sarò sempre il medesimo constante et fedel servitore di Vostra Altezza in qualsi sia fortuna; né altro gli ricordai l’ultima sera che la si partì con poche parole che mi uscirono dal core più presto che proferite dalla lingua. Et per non la infastidir più, mi raccomando humilissimamente alla buona gratia, et protettione di Vostra Altezza che il Signor Dio la prosperi.

Di Roma li xi di maggio 1570.

Di Vostra Altezza

Humilissimo et fidelissimo servo

Nofri Camaiani.

a Segue st barrato.