Il cardinale Ferdinando al principe Francesco [1]
Roma, 23 marzo 1570
Med. 5085, [già num. 106], cc. 200r-201v.
Copia della lettera del Signor Cardinale de Medici de’ 23 di marzo 70 al Serenissimo Principe di Toscanaa.
Dal vescovo Salviati afferma il Musotto esserli stato scritto di Pisa che Sua Altezza si risolveva di revocare l’ambasciatore Petrucci, a che non par contrario che lo effetto non sia seguito, come dice Vostra Altezza. Venne la risposta di Venezia con la quale quelli signori mostrorono desiderare che si desse per il re la ciurma delle galere, alle quali egli era obligato, l’assegnamento fermo et securo de denari et il giorno prefisso di comparire con esse galere. Al primo fu detto essere cosa impossibile, non havendo il re né luoghi, né ordinanze donde cavare remigi, come haveva quel Senato, ma che supplirebbe con danari et concederebbe che ne soldassino dai regni suoi quelli che volessino servire. Al secondo risposono che, trattandosi fra principi per causa commune et con amorevole unione, non pareva che dovesse richiedersi sicurtà bancharie, ma contentarsi dell’assegnamento che gli si darebbe in Napoli, da rispondere senza alcuna fatta. Al terzo dissono che si era mostrato desiderio di dichiarare, nel capitolo del termine, che xv o xx giorni più nel comparire delle galere non fussino presi per inosservanza, atteso che delle cose del mare non si può promettere cosa certa.
Parve a Sua Santità che questa sorte di difficultà, dette massimamente con tanta lunghezza di parole con quanta quelli signori venitiani le scrivevano, fusse per dare tempo a qualche pratica loro più che per altro. Tuttavia, come haveva confortato gli ambasciatori venitiani, così confortò gli spagnoli a fare ogni buon opera per convenire et s’offerse per sicurtà del pagamento suddetto, ordinando che ciò fusse loro detto da Rusticuccio, il quale anco gli mostrasse che il volere le galere proviste di ciurma dal re era impossibile et che però dovevano contentarsi di quel che si offriva intorno a ciò. Che il capitolo circa al termine non si toccasse, ma restasse nella medesima prefissione di maggio, che di ciò si contentavano li spagnoli, sperando che, come cedevano a questa limitatione, così non trovarriano male //c.200v.// interpretata la dilatione di qualche gior
no, se venisse da causa che non fusse in poter loro. Furono poi ambe due le parti sopra queste cose medesime con Sua Santità et con cardinali della Lega, né fu resoluto altro se non che li ambasciatori venitiani scriverebbono al Senato per havere la voluntà loro, al quale effetto mandorono un corriero espresso. Et non dovranno mancare ogn’hora nuovi capricci, se non si vorrà far da dovero.
Già havevo fatto qualche opera, secondo che havevo giudicato utile et ho poi visto desiderarsi da Vostra Altezza, in materia de legati. Et quell’amico spero che o non andrà o non passerà Venetia. Sarò ragguagliato minutamente in questa parte et parlerò anco a Nostro Signore per ritrarlo dalla resolutione di mandarlo altrove, se il bisogno lo richiederà. Intanto ho visto con piacere quanto Vostra Altezza mi scrive et le scritture che mi manda et non meno con esse et per mezzo di Como che con qualche altra arte, per me stesso cercherò di purgare ogni mala satisfatione.
Il cardinale Santacroce referse a Nostro Signore quanto haveva trattato con Pacecco et con me et la risposta nostra. Di questa Sua Santità restò sodisfatta et a lui disse che li saria molto piaciuto che si fusse mandato un huomo ben informato da trattare in voce, et mostrar per via, fuor della via di giuditio, all’imperatore l’esentione et libertà di Fiorenza, tornando pure a replicare che li mandati, lettere, et commissioni che portava stessero in modo che non si potesse dir mai che a Sua Maestà si fusse voluto rimettere il giuditio. Che questo ci dicesse in nome dib Sua Santità et ci chiedesse le scritture che havevamo per vederle et dirvi sopra il parer suo. Di ciò dandomi conto, lo ringratiai con mostrar seco ogni confidenza et gli risposi che qui non erano le scritture che Sua Santità voleva dire, ma che, come venissero, si faria quanto comandava Sua Beatitudine, con la quale siamo poi stati Pacecco et io et, dissimulando il primo ragionamento che non ci era stato fatto in suo nome, passammo a parlare sopra questo altro et nelle parole sue trovammo //c.201r.// la voluntà et advertimenti medesimi dettici da Santa Croce in suo nome. Io, stimando passo considerabile il dare le scritture nostre in mano di alcuno, volsi meglio intendere se pure comandava che si dessino a Santa Croce, et disse che li originali se li ritenesse Vostra Altezza senza mandarli attorno, ma che le copie haria charo si dessino a lui con commodità di vederle per sua informatione, et le risposi che così si farebbe subito che si havessino.
Resta adunque che di costà venghino, importando anco a trattare il resto che occorre. Dichiarò Sua Santità muoversi ad advertirci delle cose suddette perché credeva, come è verisimile, che l’imperatore non vorrà sentire solamente la voce del mandato, ma lo rimetterà ad alcuno dei suoi che l’odano et riferiscano, intorno a che le pareva di darli il modo da tener per fuggir la forma del iuditio.
Hebbi il summario contenente il parere di messer Lelio et poi anco gli altri intorno alla causa della precedenza et alla delusione delli ferraresi o tristitia di questo fiscale. Del fiscale è Sua Santità, come dice il Camaiano, malissimo sodisfatta, ma non vuol già cimentar di nuovo la sua dignità et far sua questa causa, con ponersi in manifesta necessità di rotture, come adverrebbe, se vedessi disprezzati li suoi monitorii, però accetta ogni altro modo che gli si proponga. Il che considerato tra noi et Pacecco, ci risolviamo che, non si rimovendo il papa di questa impressione, vano sia ogni sforzo et più tosto dannoso per il risicho di fastidirlo, non mancando chi pinga in contrario. Ond’io non ho fatto altro, ma stimo buono aspettare le scritture di costà promesse et aspettate da Sua Beatitudine la quale, quando da esse vedrà la nostra ragione, sarà forse più libera da respetti, oltrache per mezzo di Santa Croce potremo renderla persuasa che si voglia cosa ragionevole et utile alla conservatione dell’autorità di questa Sede. Questo pare da fare per hora, né da lassar fra tanto di mostrarle la summa di queste scritte, con pretesto //c.201v.// di communicare et consigliarsi seco et per passare anco alla richiesta della cosa, secondo che si troverrà la dispositione. È tale la natura di Sua Santità che chi non la maneggia destramente et mostra voler più di quel ch’ella stimi appartenerglisi o potere concedere senza suo gran disservitio come fin qui stima questo, si pregiudica più che non si giovi con lei. Però credo sia bene cercar di sgannarla et a ciò mi pare a proposito il mandare le scritture. Con lac prima occasione parlerò del desiderio di don Garzia et in modo che a Sua Santità non paia d’offenderci, negandolo, come sono quasi certificato che farà. Con questa mando a Vostra Altezza il motu proprio della Gran Ducea, datomi perciò da messer Cesare che sapeva desiderarsi da lei, alla quale raccomando con ogni efficacia Francesco Giugni, fratello di messer Bartolomeo mio maestro di camera, per qualche offitio proportionato a lui, secondo che egli le supplicarà, certificando ch’ella non potria per hora beneficare altri con maggiore sodisfattione et obbligo mio, che è per fine, col quale mi raccomando ecc. Il Camaiano le scriverrà a lungo sopra quel che ha trattato con Nostro Signore, ond’ella giudicherà meglio quel che bisogni et, se della resolutione sua saremo advisati, haremo regola più certa per lo che resta.
a Segue annotazione di Cosimo I: “Fuor delle cose della Lega che qua habbiamo inteso il vederci pur la materia della sua lettera al che rispondiamo in essa della Lega non sappiamo né che dire né che farci”.
b In nome di ms. marg. ester.
c Segue medesima barrato.