Il cardinal Ferdinando al granduca Cosimo I [1]
Roma, 16 giugno 1570
Med. 5085, [già num. 151], cc. 302r-303v.
La che Vostra Altezza mi scrive de’ xii è tutta responsiva et per ciò poco altro richiede che la ricevuta. Del cardinale di Monte mando una lettera et scrivo al Signor Principe quanto mi occorre, che sarà commune a lei ancora, et di quel che io sentirò o vedrò di lui di mano in mano le darò conto acciò possano far giuditio per la parte loro dell’animo suo. Intanto la ringratio che habbia approvato quel che havevo passato seco nella occasione della sua richiesta.
Per la pratica della Lega ha fatto Sua Santità una congregatione di cardinali tutti sue creature, eccetto che Santa Croce, il quale solo dei vecchi vi è stato ammesso, come fu aggiunto a quella dei protesti imperiali, et poi all’altra del Concilio per opera mia. Questo signore vale assai et, riconoscendosi tirato da me in questo pontificato a questi honori, si mostra molto pronto di usarli col resto d’ogni suo potere per ogni tempo in servitio nostro. Ma questo motu proprio ottenuto dal signor //c.302v.// Paolo sopra la recuperatione de suoi beni come empie di romore tutta Roma, così ha molto scandalizato il cardinale predetto per l’interesse che vi ha del castello di S. Gregorio, non perché più frutto non cavasse di suoi danari, ma per l’affettione posta a quel luogo, dove gli stanno a non più che due et mezzo per cento. Per ovviar a quella ruggine ch’io vedevo potere nascere da questo caso spinsi, pregato dal detto cardinale, il Camaiano a fare instanza anco in mio nome col signor Paolo che si contentasse di non molestarlo in virtù del motu proprio per questo castello atteso che a lui saria di nessun frutto, et il cardinale vi havea tanta affettione che prima di cederlo era per fare ogni resistenza et ponerli in garbuglio tutta la gratia, oltra che a me faria molto favore. Si rese tanto capace dopo qualche fatica che promesse anco una poliza di non noiarlo in sua vita, a ogni mio piacere, con che io quietava Santa Croce. Ma chiedendo poi la poliza, lo trovai mutato et //c. 303r.// non bastai a ottenerla con alcuna amorevole persuasione, dicendo egli che voleva il suo et che sapea molto bene che da Vostra Altezza saria provisto di danari et di favori a questo effetto, di maniera ch’io fui forzato a risentirmi con qualche libertà, dicendogli che era in grande errore se pensava che Vostra Altezza dovesse impiegare sì grossa somma di danari et la gratia di questo paese a così fatte compre più di capriccio che di util suo; et che sperando io, come figliolo di lei, dovere havere qualche parte in questa attione, poteva tener per fermo che non lasserei correre l’esecutione degl’ordini suoi, se pur alcuno gli se estorquesse, che fusse per produrre effetto tale; che se lui era Paolo Giordano Orsino, come dicea non senza fasto, io ero don Ernando de Medici più atto, per gratia di Dio, a giovare a lui et altri suoi, che bisognoso di loro; però, che si masticasse quelle parole, et non dubitasse che più mi premerebbe sempre //c.303v.// l’honore mio et il servitio di mia casa, che li Giovanpaoli, li Vicini et gl’altri Orsini suoi heredi, con le quali et altre parole l’humiliai domesticamente et siamo poi restati amici in ogni modo. A Vostra Altezza ho voluto darne conto affinché la sappia quanto passa et pensi, non dico di non aiutar il signor Paolo, al quale io vedrò sempre ogni bene, ma di far in modo che non ci compriamo le inimicizie a danari contanti, avvertendolo che di tante alienationi volga la mira a casali et all’altre parti di più suo utile che non è questa di Santa Croce, la quale io lo persuaderò a lassare sapendo che gl’interessati l’aspettavano et li desideravano questo primo incontro come più duro et da rompervisi la testa con danno ancor nostro. Che è quanto m’occorre per questa et con ogni affetto le baso la mano et gli prego continua prosperità.
Di Roma li xvi di giugno 1570.