Il cardinale Ferdinando al granduca Francesco I [1]
Roma, 30 novembre 1585
Med. 5092, n° 97 (cc. 247r-248v), firma autografa
//c. 247r//
Qual sia il parere di questi avvocati circa le cose del signor Virginio [1], et quanto gl’occorra intorno alla lettera di Vostra Altezza, lo vedrà dalla scrittura loro qui inclusa, che servirà per tutto quello, che io le ne potessi dire. Potrà ella considerarla et a fare poi quel che più stima di servitio, perché per la mia parte, come le dichiarai da principio, io non sono per per fare se non quel che vorrà lei. Chiedere a Sua Santità, che de facto annulli il testamento in tutto o in parte, et massime con quella sola notitia che se n’ha, è stimato tanto fuori de termini honesti, che non m’è parso di farlo a nome né di Vostra Altezza né mio per non farci tenere diversi da quel che siamo. Quando ci sarà l’autentico, dovremo già essere resoluti, se dovremo muoverci noi come attori con questa o altra instanza; o pur come è stimato di maggior vantaggio sin’hora, aspettare quella donna al passo con la produttione d’esso per dire, come rei, di nullità, con le ragioni benissimo pensate da Vostra Altezza, et con altre della donatione che dissi; del fidecommisso, o d’altro fondamento contra di lei, contra la quale se il papa va nel resto con quel respetto di celare l’odio, che nella persona sfogaria volentieri in vendetta del sangue proprio, può pensarsi se vorrà scoprirlo per altri nella roba a minor sua sodisfattione; che quello ci habbia da venire fatto secondo l’intentione di Vostra Altezza, poco se ne dubita, ma con l’aspettare, come ho detto, caderà per li suoi piedi, ond’io non vorrei, che sopra questo fussimo molesti al papa //c. 247v// né gli mostrassimo bisogno maggiore di quello che si è della sua autorità, ma ce la serbassimo in altro; et intanto ci servissimo della sua amorevoleza a fermare bene le cose, come Sua Santità istessa ricorda, la quale non seppe lodare che io non mi facessi dare subito le scritture, come ricordò d’havermi detto, quando sentì le girandole di don Lelio [2], et quali modi suoib nel pontificato non sono perpetui, et non bello intrigo pare che saria, se Ferrara o Urbino volessero ingerirsi, per qualsi voglia rispetto conforme al testamento, et se il papa non tenesse duro per le malignità che Vostra Altezza ricorda. Havendo dunque tutt’il resto comodamente tutti quelli remedii che Vostra Altezza dice, benissimo pensati, par che sia da fermare bene le cose, et co’l nome del signor Virginio, poiché può usarsi senza pericolo, o obligo alcuno per l’età sua, et co’le cautele ordinarie; perché io non ho fatto altro dopo il possesso del signor Francesco, et di questa fermatac, che è incomodissima a quelli vassalli può maravigliarsi ogn’uno più che del primo ardore. Il quale in me chi ha visto nel trattare la lite in vita del signor Paolo [3], non harà dato meraviglia di vederlo hora più tosto minore, havendolo moderato il medesimo concetto, che era venuto a lei, il quale in me ha potuto operare tanto più, quanto più vivi ho visti li pensieri delli emuli et maligni, fra quali voglio che la sappia, che Farnese è passato a tanta impudenza che s’ha lassato uscir di bocca con don Lelio, et co’altri che saremo per dare il veleno a Virginio, et casare Leonora con don Antonio [4] per appropriarci quello Stato, che sono li concetti, quali //c. 248r// si riconoscono fra tante diligenze di quel bestione nel testamento per tenerlo in casa Orsina.
A chi m’ha detto questo di Farnese, mi venne assai prontamente risposto, che in casa nostra, non si usò mai veleno attivo, et del passivo mi ricordavo quel solo, che loro Farnesi (come hanno fatto con altri di fuori) dettero al cardinale Ippolito [5] per havere la roba sua, che ancora gode il cardinale in tante badie, et palazi. Et lo aspetto in un consistoro per havere presenti Cesi [6], o altri cardinali amici quando gli dirò sopra questo dieci parole, già approvate dal papa, che ho fatto consapevole di tanta malignità, la quale se mosse quel pensiero che scrissi d’incommodarlo fra li primi credo, che Vostra Altezza, sentendo questo particolare, se vorrà stimarlo sdegno, non lo stimarà almeno ingiusto, et con questo medesimo potrà conietturare quel che debbiamo mirare, et se dovemo restare per accommodare bene queste cose in un tratto per haverne poi minor fastidio, et minor romor della brigata, che non haremmo tenendole sospese, poiché questo basta a tenere vivo il cicaleccio di costoro quanto il fermare le cose a fermare questo ancora. Et bene sente così il papa, il quale quando stamane gl’ho dato la carta di Vostra Altezza, ho trovato in conformità di sempre amorevolissimo, et ha voluto sapere quanto s’è fatto, né approva che fin’hora non si siano mutati li ministri, anzi espressamente m’ha comandato, che lo facci, accennandomi particolarmente d’un auditore tristo bene, ministro de Coramboni, in luogo del quale disegno mettere un dottore vecchio et pratico, che vi è stato altra volta, et che già era qui chiamato da don Lelio et da me per mandarvelo //c. 248v// in vita del signor Paolo, al quale piaceva et è grato a popoli, ma a questo et altro m’andarò trattenendo in ogni modo fino alle risposte di Vostra Altezza, perché se bene questa commessione di Sua Santità bastaria a validare questa et ogn’altra resolutione, necessaria a molti, che patendo in civile et in criminale, ricorreranno a Sua Santità et alla consulta per remedio, et con dissertatione et disordine, nondimeno io lassarò correre, se non sono certo di sodisfare a Vostra Altezza, volendo stimare più questo che il tutto il resto.
Paolo Sforza [7] venne, et mostra di havere havuto sì buona cera dal papa, et sì buone parole per il cardinale che l’ha richiamato, et è venuto hoggi. Non so accordare queste cose con quel che mi haveva detto Rusticuccio [8] di Sua Santità circa Paolo, et che lei stessa ha detto a molti di Sforza. Vedremo, et fratanto a Vostra Altezza bacio la mano.
Di Roma li xxx di novembre 1585.